L’ANIMA E NOI. Riflessioni e possibilità

Esistono luoghi di pace dove si possa finalmente prendere respiro, il lusso del tempo e del pensiero intimo, il piacere dello stare lì, ascoltare ed ascoltarsi. Sono in generale i luoghi della lettura, ogni supporto che ospiti uno scritto, ogni stanza che ospiti parole, o arte, immagini. Il riferimento oggi va a quei meravigliosi luoghi di riflessione e dibattito che permettono questa esperienza così preziosa: le riviste specializzate e professionali, spesso proposte in numeri monografici che consentono di approfondire tematiche trascurate o che richiedano uno spazio ampio nella mente, e una sosta dal resto. Delle tante riviste che la nostra casa editrice ha il piacere di pubblicare abbiamo oggi il gusto di soffermarci su “La società degli individui. Quadrimestrale di filosofia e teoria sociale”, diretta da Ferruccio Andolfi. E lo facciamo perché l’ultimo numero pubblicato, il 57, è di quelli che rimarranno nei ricordi dei suoi già affezionati lettori e dei nuovi che, ci auguriamo, li seguiranno.
Il tema che affronta è talmente grande da risultare quasi imbarazzante, anche per chi – filosofi, psicoanalisti, teologi, artisti – lo hanno più di altri nel repertorio delle proprie riflessioni.
Stiamo parlando di anima. E davanti a tale altezza c’è chi – ci dice Andolfi – si è addirittura tirato indietro.
“Se ponete a qualcuno la domanda ontologica: che cos’è l’anima – ci ricorda nel prologo – vi guarderà smarrito e nel migliore dei casi vi rimanderà alle ricerche dei neuroscienziati, che cercano di localizzare i più sottili strati interiori che un tempo si credeva di poter ascrivere a una sostanza spirituale ormai totalmente delegittimata. In fondo le stesse difficoltà che sto sperimentando nella costruzione di un fascicolo sull’anima, i gentili rifiuti degli studiosi interpellati di scrivere un saggio in merito, si possono probabilmente riportare alla difficoltà di tracciare oggi un qualche profilo di che cosa sia l’anima”.
Difficoltà, certo. Smarrimento, addirittura.
Ma chi con coraggio si è seduto e ha provato ancora una volta – di chissà quante volte – a prendere in mano la penna, e riordinare le idee in proposito, ci ha regalato una collezione di pensieri che hanno dato vita ad numero della rivista che non esitiamo a considerare preziosissimo.
Filosofi, teologi, psicologi, antropologi e scienziati della mente sono stati interpellati – seguiamo ancora le parole di Andolfi – “più come persone sagge che per il loro specialismo”.
Cos’è l’anima?
Le risposte sono state riunite seguendo tre nuclei fondamentali, come ci ricorda Valeria Bizzari, una delle firme presenti e traduttrice di diversi saggi proposti: la prospettiva ontologica, ove l’anima fa da sfondo esistenziale a sostegno di ogni esperienza e che dunque apre anche a una visione laica; la prospettiva epistemologica, che immagina un’anima capace di trascendere se stessa, di provare emozioni e che si propone allora come relazione. E infine il punto di vista morale, terzo nucleo interpretativo: l’anima portatrice di valore etico.
E noi che leggiamo – e che siamo anche invitati a fermarci qua e là sulle immagini che fanno da dolcissimo accompagnamento alle parole, fotografie di sculture della Psiche, la alata, l’abbandonata, la svenuta – noi, anche, ci commuoviamo.
Emozione che si mescola a mille altre e a molteplici livelli di interesse, nella varietà dei contributi che portano nomi altisonanti quali, solo per citarne alcuni, Paolo Costa, Nicholas De Warren; Manuel Fraijó, Alberto Meschiari, Alberto Siclari o Fernando Savater.
Di quest’ultimo, ad esempio, cogliamo il pensiero originale, relativamente alla ovviamente irrisolta questione dell’immortalità o meno dell’anima: “Il destino dell’anima è il corpo”, afferma. E tra le due possibilità, quella materialista legata alla mortalità certa dell’anima, e quella spiritualista che la vede anzi come “scialuppa di salvataggio” per recuperare il nostro involucro carnale perito, Savater individua una terza possibilità, a suo parere quella più convincente. “Ciò che chiamiamo ‘morte’ del corpo non è altro che una metamorfosi verso altre combinazioni successive”, sappiamo infatti che in natura nulla si crea né si distrugge, ma si trasforma. L’anima però – continua così la riflessione del filosofo spagnolo – “non è legata a queste parti che fluiscono, vanno e vengono, bensì a una delle forme che adottano – quella del corpo umano – e a nessun’altra. Quando il corpo crolla come un castello di carte, l’anima corrispondente svanisce perché apparteneva a questa forma e niente più”. Insomma, come dire: l’anima è l’unico elemento mortale.
Ascoltiamo anche, anticipandovi le affascinanti parole conclusive – che certamente troveranno grande seguito presso gli amanti degli animali (badiamo un secondo anche all’etimo di questo termine…) – l’intervento dello psicoanalista Antoine Fratini, relativamente ai legami animici tra soggetto e oggetto.
“A volte, certe esperienze apparentemente casuali riescono ad intaccare la corazza egoica del moderno. È successo per esempio al noto scrittore statunitense James Oliver Curwood, cacciatore sfegatato, amante della caccia grossa. Nel suo romanzo più famoso, The grizzly king, racconta che durante una battuta di caccia si mise ad inseguire un orso grizzly adulto di notevole stazza, ingaggiando con lui una lunga ed estenuante sfida. Curwood voleva a tutti i costi tornare con un trofeo per appagare il suo istinto (o il suo Ego?) di cacciatore e, forse, sentirsi finalmente più ‘uomo’. Una sorta di iniziazione inconsapevole, insomma. Ma si trovò in impasse in mezzo alle rocce, impossibilitato a fare uso del suo fucile e a tu per tu con il grizzly che avrebbe potuto sbranarlo e che invece si limitò a sfogare la propria rabbia con gesti e grida minacciosi, senza nemmeno sfiorarlo. Quando l’orso si fu allontanato, Curwood prese il fucile per sparargli alle spalle, sicuro di non mancarlo, ma qualcosa glielo impedì. Qualcosa di irreversibile era successo in quell’incontro ravvicinato: ormai il cacciatore era legato animicamente all’animale, ne poteva sentire la presenza nella propria anima. Questo lo aveva trasformato radicalmente, al punto da ispirargli una frase da incorniciare: «il grande brivido della caccia non è uccidere, ma lasciar vivere». Probabilmente, a quel punto, il cacciatore aveva recuperato il collegamento con la dimensione animica ed era diventato un uomo vero”.
Una storia toccante, che allarga la prospettiva mostrandoci dove ci possa condurre il pensiero sull’anima.
Ed è un percorso, quello sul quale ci conduce questo numero 57, che ci fa calpestare davvero molteplici sentieri sullo stesso cammino.
L’incipit di ogni articolo può essere visualizzato in anteprima, e per acquistare l’intero fascicolo o i singoli contributi, o ancora per sapere tutto de “La società degli individui” basterà un clic qui.
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Ma prima fermiamoci ancora un attimo e ascoltiamo la nostra voce: “Anima, anima mia”. È sufficiente pronunciare queste parole per capire la portata dell’argomento. Una potenza che ci sovrasta, una dolcezza che ci turba, forse un’inquietudine. Che davvero val la pena di indagare.
Anima mia
Anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
e come s’affonda nell’acqua
immergiti nel sonno
nuda e vestita di bianco
il più bello dei sogni
ti accoglierà
anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
abbandonati come nell’arco delle mie braccia
nel tuo sonno non dimenticarmi
chiudi gli occhi pian piano
i tuoi occhi marroni
dove brucia una fiamma verde
anima mia.
Nazim Hikmet
Ultima preghiera
Anima mia, fa’ in fretta.
Ti presto la bicicletta,
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.
Arriverai a Livorno
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nel buio, volta al mercato.
Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un’altra, sulla stessa strada.
Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.
Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un’altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.
Ricordati perché ti mando;
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come,
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al Cisternone.
Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d’erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.
Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all’erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accòstati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.
Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mórmorale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso,
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.
Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi, va’ pure in congedo.
Giorgio Caproni
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